Matteo Marconcini: «La qualificazione alle Olimpiadi il momento più bello»
Italiajudo è lieta di riavere sulle sue pagine un grande atleta del judo italiano, della nazionale e dell’Arma dei Carabinieri tramite il suo Centro Sportivo, che all’età di 31 anni ha deciso di scendere dal tatami agonistico. Una chiacchierata dove le domande sono diventate lo spunto per parlare a 360° di una carriera fatta di momenti bellissimi ma anche di periodi bui dai quali Matteo ne è uscito grazie alla sua grande forza di volontà e all’appoggio delle persone che gli sono vicini. È iniziato per lui un nuovo capitolo della sua vita sportivo-professionale come tecnico del Centro Sportivo Carabinieri, la sua seconda famiglia.
Matteo, è un piacere averti di nuovo come “ospite” su Italiajudo. Da cosa scaturisce la decisione di ultimare l’attività agonistica e da quanto tempo ci stavi pensando?
Prima che il COVD-19 si espandesse su scala globale, la mia partecipazione alle Olimpiadi di Tokyo non era affatto scontata, in particolare perchè gareggiavo nella categoria dei 90 kg, che non sentivo mia. Mi sono sempre sentito un 81 kg, tuttavia nell’ultimo periodo facevo molta fatica a calare con il peso e quindi ho deciso di cambiare categoria e provare il miracolo; il sopraggiungere della pandemia non ha aiutato e, in quei tre o quattro mesi di stop, ho iniziato a riflettere sul mio futuro e ho capito che dovevo fare altro. Nel mese di giugno, giunto al Centro Sportivo Carabinieri ho comunicato al mio comandante Luigi Guido che avrei abbandonato la carriera da atleta e che ero disposto a dedicarmi ad altro; mi è stata data subito la possibilità di affiancare i tecnici del Centro Sportivo; piano piano mi sono formato e questo fine settimana accompagnerò i ragazzi in gara a Zagabria.
Durante la tua carriera ti sei rialzato mille volte nonostante le difficoltà e soprattutto i tantissimi infortuni, qual è stato il segreto di questa perseveranza e forza di volontà?
Non c’è un segreto, piuttosto la voglia di arrivare. Fin da piccolo mi immaginavo alle Olimpiadi, con al collo una medaglia importante; ho iniziato a fare judo prima ancora di andare a scuola, fa parte della mia vita. Di momenti brutti ce ne sono stati, però non ho mai smesso di crederci e sognare; ogni volta che cadevo (anche se erano botte importanti emotivamente, moralmente e fisicamente) cercavo sempre la motivazione per tornare più forte di prima.
Qual è il ricordo più bello della tua straordinaria carriera da atleta? E invece il meno bello?
Il ricordo più bello che conservo si riferisce a tutto il percorso di qualificazione alle Olimpiadi di Rio de Janeiro. Se volessimo trovare un giorno in particolare, ricordo con molto piacere la gara di Almaty dove, per potermi qualificare era necessario che arrivassi in finale. Di quel momento, conservo gelosamente una foto scattata dopo la vittoria della semifinale, dove a braccia aperte sembro dire: “Non so neanche io come ho fatto, ma ce l’ho fatta!“. In quel momento mi sono sentito in cima al mondo, quasi imbattibile, anche se dopo ho perso la finale ed evidentemente non era così (ndr sorride). È stato un periodo particolarmente positivo, mi sentivo bene, mi divertivo ad allenarmi, ogni volta che c’era una gara ero tranquillo, ero in peso e facevo la dieta con serenità.
Il momento più brutto invece non poteva che verificarsi dopo un momento bello, ovvero la medaglia d’argento al Mondiale. Arrivai all’appuntamento iridato con una forte pubalgia e raggiungere quella medaglia fu arduo sia nel lavoro antecedente che durante la gara. La felicità per la medaglia d’argento fece passare in secondo piano le difficoltà. Tornato a casa decisi di fermarmi un paio di mesi per dedicarmi alla cura della pubalgia e appena recuperato decidemmo con i fisioterapisti del Centro Sportivo di andare in gara ai Masters di San Pietroburgo del 2017. All’epoca, i Masters erano dedicati ai migliori 16 atleti al mondo ed io ero il numero 15 del ranking. Quel pomeriggio mentre ero in scooter una macchina mi travolse e mi cadde il mondo addosso. Mi accorsi subito della gravità della situazione, la caviglia era molto gonfia. Il chirurgo mi comunicò che era necessaria un’operazione d’urgenza perché il malleolo si era fratturato in tre parti e probabilmente non sarei potuto tornare a combattere. È iniziato un calvario durato un anno; dopo l’operazione è subentrata un’infezione, inoltre sentivo sempre dolore e mi sono dovuto rioperare. Credo di esserne uscito perchè ero 15° al mondo ed avevo troppa voglia di tornare; la mia carriera non poteva finire con un’infortunio, ma dovevo essere io a decidere quando smettere. Devo tutto alla mia forza di volontà, all’aiuto di quella che ora è mia moglie, che fa l’infermiera e che mi ha dato un grandissimo aiuto oltre che morale anche professionale, e chiaramente devo molto al Centro Sportivo Carabinieri che mi ha sostenuto sotto molteplici aspetti.
Cosa ti mancherà di più della vita da atleta?
Le gare. In realtà già mi mancano. Quando vedo le competizioni di coloro che erano con me in Nazionale nell’ultimo periodo, Fabio Basile, Antonio Esposito, Manuel Lombardo ed anche i più giovani che mi chiamavano Capitano, mi viene il magone. Sono sensazioni che si possono provare e capire solo vivendole. Per questo il nostro sport è tremendo: “ti fa cagare sotto” – passami il termine – poco prima di salire sul tatami, ed una volta che sei lì, la paura e l’ansia scompaiono e pensi solo a combattere. Questo mi mancherà.
Quali sono le difficoltà che hai incontrato nell’intraprendere la strada dell’allenatore, sempre che ve ne siano state.
In realtà non posso parlare di difficoltà perché al momento sono nella fase dell’entusiasmo. Sicuramente bisogna interagire nel modo opportuno con gli atleti. Dedicarsi all’alto livello è diverso dal maestro che insegna al bambino. Anzi per me quello è il vero maestro e rispetto tantissimo quelli che si dedicano alla crescita dei più piccini e li portano ad essere competitivi, perchè è un lavoro tosto.
A livello di formazione, sono concorde con chi propone di strutturare i corsi in maniera differente a seconda che un tecnico voglia seguire solo bambini o atleti di livello superiore.
Come allenatore punto su due aspetti: la motivazione e la fiducia. Lavoro con atleti evoluti che si allenano 13 o 14 volte a settimana, che hanno sicuramente delle lacune e dei limiti, che tuttavia, si possono curare e correggere abbastanza facilmente. Quando ti alleni ad un certo livello entra più in gioco la motivazione, ed io che sono stato un atleta di élite, posso cercare di trasmettere in maniera importante questo aspetto. La fiducia tra atleta ed allenatore è fondamentale; senza di essa, il risultato non si raggiunge.
Resterai nel gruppo sportivo dei Carabinieri?
Ovviamente, non necessariamente un bravo atleta diventa un bravo tecnico; ciò detto, sono sicuro del fatto che un bravo atleta può dare un contributo importante in materassina, sopratutto nei primi anni dopo aver terminato l’attività agonistica. Salire sul tatami al fianco di un ex atleta che è stato abbastanza importante è un motore motivazionale per molti giovani; anche solo fare uno scambio sulle prese, un uchi-komi, un randori (anche divertendosi) è un momento di crescita di cui si deve approfittare. Lo vivo tutti i giorni con i ragazzi che quando sono in materassina mi cercano, mi chiedono consigli sia tecnici, sia legati alle mie esperienze.
A 31 anni hai preso la decisione di ritirarti dalle competizioni. Ultimamente si è molto parlato del divieto tutto italiano di svolgere attività agonistica oltre i 35 anni. Qual è la tua opinione a riguardo?
Sicuramente nel nostro sport arrivare a 35 anni è complicato, soprattutto nelle competizioni di alto livello perchè l’età si è abbassata molto. Continuare a combattere dopo i 35 anni dipende dall’atleta. Se mi dicessi di combattere dopo i 35 anni, mi verrebbe un forte mal di testa (sorride), però se tu dovessi chiederlo a Daigoro Timoncini, lottatore del Centro Sportivo Carabinieri, ti direbbe di si. Anche lui si è recentemente ritirato dalle competizioni per via dell’età, tuttavia, se avesse potuto avrebbe sicuramente continuato.
Ritengo che imporre lo stop all’agonismo per via dell’età sia una cosa brutta.
Quando ti sei trovato a gareggiare contro atleti più giovani, che ruolo ha giocato l’esperienza e che valore aggiunto rappresenta per te?
L’esperienza rappresenta per me un valore inestimabile. Nonostante non mi alleno più con la finalità della gara, piuttosto per stare bene con me stesso, riesco a mettere in difficoltà ragazzi giovani, fisicamente dotati, super allenati in vista di una competizione. È chiaro che fare un randori è molto diverso da fare una competizione, magari con qualche incontro che finisce al golden score. A tal proposito, conservo un ricordo riferito al Grand Slam di Parigi 2019: al terzo incontro incontrai Casse, ora n° 1 della WRL a 81 kg, allora giovanissimo, arrivammo al termine dei 4 minuti in parità. Dopo 2 minuti di golden score io ho visto le stelline. Lo stavo gestendo sotto l’aspetto dell’esperienza e non sicuramente sotto quello fisico; appena ha messo l’acceleratore si è portato a casa l’incontro. Inoltre, con l’età subentra anche il fattore allenamento. Nel nostro sport, devi essere completo e devi allenarti sotto diversi punti di vista che col tempo necessariamente diventano difficili da sostenere.
Grazie Matteo per questa piacevole chiacchierata ed in bocca al lupo per il tuo futuro da allenatore.
Crepi il lupo. A presto.
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